Rifiuti da demolizione sepolti nei riporti di terreno: una annosa questione
By Antonio Bernardi
In un terreno sono stati rinvenuti dei materiali di riporto provenienti da demolizioni varie. Questi materiali erano stati sepolti molti anni fa, ed ora la normativa vigente obbliga ad agire conformemente alla regolamentazione prevista per i rifiuti.
La questione dei materiali di riporto è ampiamente dibattuta, in quanto la legge, avendoli identificati come rifiuti, prevede due sole alternative possibili (lo smaltimento e il recupero) entrambe molto onerose per lotti di terreno aventi dimensioni compatibili con la destinazione produttiva/industriale. Qui non considero i costi legati ad eventuali operazioni di bonifica del terreno, per semplicità. Basti sapere che potrebbero aggiungersi al conto finale.
Lo smaltimento consiste nello scavare ed avviare ad una idonea discarica i materiali rinvenuti, con costi che dipendono dai risultati delle analisi chimiche da eseguire sui lotti rimossi e che vanno da 30 €/t (discarica per inerti) a 280 €/t (discarica per rifiuti pericolosi). Si parla, generalmente, di 900 € – 8 000 € per un singolo camion di rifiuti smaltiti.
In alternativa, il recupero può avvenire avviando i carichi di rifiuto (non pericoloso, altrimenti la discarica è il sistema più conveniente) ai centri autorizzati, ove subiscono una serie di operazioni di macinazione, vagliatura e selezione che permettono, alla fine, di ottenere materiali inerti compatibili con le specifiche dei prodotti da costruzione, da riutilizzare poi in opere di sottofondazione, o di recupero ambientale. Pertanto, al termine delle operazioni di recupero, gli stessi materiali estratti da un terreno potrebbero esservi reinseriti, ovviamente acquistandoli dal centro di recupero e pagando i relativi trasporti.
Appare chiaro, in questo caso, che l’intera operazione, ineccepibile dal punto di vista della legge, è assolutamente contraria ad ogni politica di gestione economica, ma essa è contraria anche allo spirito stesso di tutela dell’ambiente che quella legge ha ispirato. Infatti, si è dovuto sostenere un elevato costo energetico per ogni operazione e si è incrementato il traffico veicolare (che inquina) per ottenere che i materiali presenti inizialmente nel sito continuino a restarvi, solo… più piccolini di prima.
Esiste una forma alternativa di recupero, consentita dalla legge, vale a dire il recupero sul posto. Interviene un impianto mobile di macinazione/vagliatura – debitamente autorizzato – che permette, se non altro, di risparmiare il costo dei trasporti e del riacquisto dei materiali lavorati. Ancora una volta, però, chiunque abbia un briciolo di buon senso non potrà non notare che si devono spendere molto denaro e molta energia per ottenere che quanto era sepolto nel terreno torni ad esservi sepolto. Ancora una volta, il bilancio ambientale è negativo: nulla è migliorato per l’ambiente, molto è peggiorato.
Questa apparente contraddizione tra le intenzioni e i risultati va cercata nella rigidezza e nell’incompletezza della norma, in particolare del decreto che disciplina il recupero di rifiuti non pericolosi in regime semplificato. Esso, infatti, impone vincoli molto stringenti sulle lavorazioni da eseguire sul rifiuto perché questo non si debba più considerare tale, e sulle caratteristiche finali del materiale che si devono ottenere. Questo è perfetto quando si intenda disciplinare l’attività dei centri di recupero, il cui lavoro è ricevere rifiuti da terzi e trasformarli in prodotti da vendere, ma diventa un controsenso ogni volta che ci si imbatte nei riporti costituiti anche da rifiuti di demolizione. Questo caso semplicemente non è stato previsto dal legislatore, per questo ho scritto che la norma è incompleta, e tale carenza deve essere colmata, giorno per giorno, dai funzionari delle amministrazioni pubbliche che si trovano a dover affrontare i singoli casi. Funzionari che si trovano tra l’incudine di una norma che non lascia spazi alla discrezionalità, e il martello dei privati (o enti pubblici) che protestano, e a buona ragione, per gli elevati costi da sostenere solo per ottemperare al dettato normativo (sia chiaro, qui diamo per scontato che non abbiamo a che fare con sostanze inquinanti). Nel mio piccolo, proporrei di valutare, caso per caso, la necessità di dover trattare tutto il materiale in un sito.
Servirebbe, però, un criterio per stabilire la necessità di macinazione e vagliatura, un criterio abbastanza generale da permettere, volta per volta, al funzionario di turno di decidere se serve trattare, dove serve trattare, quanto materiale debba essere trattato. Un criterio stabilito per via normativa. Il Testo Unico ambientale impegnava il legislatore ad armonizzare la legislazione previgente alle finalità espresse nell’art. 2 entro due anni dalla sua pubblicazione: questa armonizzazione non è stata ancora completata a distanza di cinque anni, ed i cittadini ne pagano le conseguenze. Dove il contrasto tra gli obbiettivi della legge e gli strumenti applicativi è più evidente, dovrebbero prevalere i primi.
A mio avviso, è lecito pensare di scavalcare regolamenti inattuabili, ed è possibile farlo nel nome della difesa di un principio che sta scritto in uno strumento legislativo di grado superiore a quello incriminato. Se una norma sbaglia, deve essere corretta; se non viene corretta, deve essere disapplicata.