Determinazione delle caratteristiche di infiammabilità dei rifiuti liquidi
By Antonio Bernardi
La regolamentazione europea include, tra le tipologie di pericolo dei rifiuti, anche l’infiammabilità. L’allegato III della direttiva 2008/98/CE relativa ai rifiuti, recepito in Italia come allegato I alla parte quarta del D.Lgs. 152/2006, assegna la caratteristica di infiammabilità a sostanze o preparati liquidi, gassosi e solidi, distinguendo tra due gruppi di diversa pericolosità.
Il processo di classificazione di un rifiuto deve passare, pertanto, anche attraverso la verifica di tale caratteristica, eventualmente attraverso un’opportuna analisi di laboratorio.
H3-A e H3-B
La regolamentazione distingue due gruppi di sostanze infiammabili: quelle “solo” infiammabili e quelle “facilmente” infiammabili. Premetto che, per semplicità di scrittura, parlerò prevalentemente di sostanze senza distinguere tra sostanze pure, miscele, preparati, soluzioni e quant’altro a meno che non sia strettamente necessario, o che non stia citando una qualsiasi fonte.
Le sostanze facilmente infiammabili sono le seguenti:
- sostanze e preparati liquidi il cui punto di infiammabilità è inferiore a 21 °C (compresi i liquidi estremamente infiammabili), o
- sostanze e preparati che a contatto con l’aria, a temperatura ambiente e senza apporto di energia, possono riscaldarsi e infiammarsi, o
- sostanze e preparati solidi che possono facilmente infiammarsi per la rapida azione di una sorgente di accensione e che continuano a bruciare o a consumarsi anche dopo l’allontanamento della sorgente di accensione, o
- sostanze e preparati gassosi che si infiammano a contatto con l’aria a pressione normale, o
- sostanze e preparati che, a contatto con l’acqua o con l’aria umida, sprigionano gas facilmente infiammabili in quantità pericolose.
(testo della direttiva)
Tutte queste sostanze sono contrassegnate dalla sigla H3-A. Ci sono, poi, le sostanze e preparati liquidi il cui punto di infiammabilità è pari o superiore a 21 °C e inferiore o pari a 55 °C.
Per queste, denominate semplicemente infiammabili, la sigla di riferimento è H3-B.
Infiammabile vs. combustibile
Di particolare rilievo è la differenza tra “infiammabile” e “combustibile” per quanto riguarda le sostanze solide. Infatti, la caratteristica di infiammabilità (che, tra l’altro, prevede il solo gruppo H3-A) va assegnata a sostanze che bruciano “rapidamente”, evitando di coinvolgere inutilmente sostanze di ordinaria combustibilità quali, ad esempio, il legno.
Questo articolo si occuperà, però dei soli liquidi infiammabili, tralasciando anche le sostanze gassose o piroforiche. La ragione di queste brevi considerazioni è stata infatti la necessità di effettuare una classificazione su acque di processo contenenti una certa percentuale di solventi organici in soluzione.
Regolamentazione europea
Vediamo di capire come si è mossa la regolamentazione ufficiale. Il D.Lgs. 152/ 2006, c.d. “Testo Unico Ambientale” (TUA), nella versione in vigore ha recepito le indicazioni della direttiva 2008/98/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 19 novembre 2008 “Relativa ai rifiuti e che abroga alcune direttive”. Il citato Allegato I alla parte IV identifica le caratteristiche di pericolosità e ne indica le modalità sperimentali di determinazione.
La filosofia è di utilizzare, per i rifiuti, gli stessi criteri di valutazione previsti per la classificazione delle sostanze pericolose. Infatti, nella direttiva si impone di fare riferimento alla direttiva 67/548/CEE - ed in particolare al suo allegato V - per la scelta dei metodi di prova, lasciando aperta l’opzione di utilizzare metodi di prova più aggiornati emessi dal CEN, il Comitato Europeo di Normalizzazione. Ricordo che la direttiva 67/548/CEE, rimaneggiata decine di volte negli anni, è stata il punto di riferimento europeo per la classificazione delle sostanze pericolose fino all’entrata in vigore del Regolamento REACH.
Il Regolamento REACH (Regolamento (CE) n. 1907/2006) ha preso il posto della direttiva del ‘67, e anche i metodi di prova sono stati aggiornati per mezzo del Regolamento (CE) n. 440/2008, successivamente integrato da interventi minori.
Ora, è curioso notare che, dal punto di vista del legislatore europeo, non vi sono dubbi su quale sia il riferimento per i metodi di prova; dubbi che esistono, invece, nella regolamentazione italiana, che ha pedissequamente copiato il testo della direttiva 2008/98/CE nell’Allegato I del TUA, e che pertanto obbliga a ricorrere al defunto Allegato V della 67/584/CEE e non al Regolamento n. 440/ 2008. Fortunatamente, almeno per quanto riguarda la determinazione dell’infiammabilità, i due testi sono identici.
Piccolo confronto con la regolamentazione USA
Prima di approfondire i criteri di analisi dei rifiuti liquidi infiammabili, vale la pena di osservare anche cosa succede oltremare, e precisamente negli Stati Uniti d’America. L’ente di protezione ambientale EPA, che ha definito i metodi di prova per i rifiuti, nel metodo 1020B rimanda semplicemente al codice federale, precisamente al punto 40 CFR 261.21(a)(1) che, a sua volta, indica tre possibili metodi di analisi, tutti di casa ASTM, ed una sola classe di infiammabilità, limitata alle sostanze con punto di infiammabilità inferiore a 60 °C. I metodi imposti sono uno all’equilibrio, e due non in equilibrio. Descriverò tra poco tali differenze.
Metodi di prova
Per capire quali metodi di prova impiegare nella definizione delle caratteristiche di pericolo, è necessaria una breve spiegazione sul significato di infiammabilità per i liquidi.
I liquidi sono definiti infiammabili quando dalla loro superficie evapora un quantitativo di vapori sufficiente a formare una miscela combustibile con l’aria. Difatti, la combustione non interessa la fase liquida della sostanza, bensì l’interfaccia tra la sostanza stessa e l’ambiente esterno.
Siccome la capacità di emettere vapori dipende dalla temperatura, si è visto che è comodo e utile identificare la minima temperatura alla quale la nube di vapori emessi dal liquido riesce ad essere accesa (vale a dire, i vapori sono emessi in quantità sufficienti a sostenere la combustione). Questa temperatura è definita punto di infiammabilità (in inglese flash point).
Il punto di infiammabilità è il cardine del sistema regolamentare sulle sostanze infiammabili (v. sopra), in quanto identifica il comportamento al fuoco di ogni sostanza. Ogni liquido possiede una propria tensione di vapore, che è funzione crescente della temperatura del liquido stesso, e siccome al crescere della tensione di vapore cresce la concentrazione dei vapori infiammabili in aria, è comprensibile la scelta di misurare la temperatura (una grandezza di facile rilevabilità) quale indicatore dell’infiammabilità del liquido.
Tutto facile, no? Solo apparentemente: la misura del punto di infiammabilità fa ricorso a metodi di prova affetti da un elevato grado di empiricità, pertanto il risultato è fortemente correlato al criterio utilizzato, tanto che sarebbe utile poter sviluppare un solo metodo convenzionalmente uguale per tutti. Al momento, la legislazione europea sui rifiuti (e sulla classificazione delle sostanze pericolose) permette di scegliere il metodo di prova all’interno di una rosa di possibilità (anche le varie matrici sottoposte a prova influenzano i metodi di prova), ma di fatto preferisce una tipologia di metodi all’altra.
Vaso aperto e vaso chiuso
Vediamo come si può procedere. Il principio comune a tutti i metodi è semplice: si mette un po’ di liquido campione all’interno di un contenitore, lo si porta alla temperatura desiderata e si prova ad accenderlo. Tutto qua. Se brucia, si esegue nuovamente la prova ad una temperatura minore, fino a trovare una temperatura per cui non si ha più combustione. Se non brucia, si alza la temperatura fino a trovare il punto di infiammabilità cercato.
Nel tempo, si sono evolute diverse tecniche, sviluppate indipendentemente in vari campi della chimica applicata (industria chimica, industria petrolifera, etc.). La prima distinzione riguarda i tipi di contenitore: si può utilizzare un vaso aperto, a contatto diretto con l’aria ambiente, o un vaso chiuso.
Il tipo a vaso aperto viene utilizzato generalmente per prodotti altobollenti (per i quali, dal punto di vista della sicurezza, ha meno importanza sapere l’esatto punto di infiammabilità). Nel vaso aperto, le condizioni dell’ambiente di prova influenzano fortemente il risultato finale (si pensi ad eventuali turbolenze nell’aria circostante, che possono disperdere i vapori e falsare il risultato). Un’applicazione del sistema a vaso aperto è nota come metodo Cleveland (Cleveland Open Cup, COC).
Per una determinazione accurata, si preferisce far uso del sistema a vaso chiuso, nel quale la formazione dei vapori avviene in un ambiente isolato dall’esterno. Sistemi a vaso chiuso sono l’apparecchio di Abel, l’apparecchio di Abel-Pensky, l’apparecchio di Pensky-Martens, l’apparecchio a piccola scala noto come Setaflash. I sistemi a vaso chiuso determinano un punto di infiammabilità minore dei sistemi a vaso aperto, pertanto sono preferibili per questioni legate alla sicurezza (non si corre il rischio di sottostimare un pericolo).
Metodi all’equilibrio
Le prove a vaso chiuso si possono dividere in due gruppi: quelle dette all’equilibrio e quelle non in equilibrio. Nei metodi all’equilibrio si presume che i vapori abbiano raggiunto l’equilibrio termico con il liquido al momento in cui si avvicina la sorgente di accensione.
Il Regolamento CE n. 440/ 2008, al punto A.9, indica i seguenti metodi all’equilibrio:
- ISO 1516;
- ISO 3680;
- ISO 1523;
- ISO 3679.
Tra i precedenti, il metodo di più ampia applicabilità (sia per il range di punti di infiammabilità, che va da - 30 °C a 300 °C, sia per le matrici analizzabili, che comprendono anche vernici a base acquosa ed esteri degli acidi grassi) è ISO 3680, recepito a livello comunitario da EN ISO 3680. Esso fa uso dell’apparecchio a piccola scala Setaflash. Lo vedo molto adatto all’analisi generalizzata sui rifiuti, in particolare per la soluzione del problema che mi ha portato ad approfondire questo argomento.
Anche gli Americani prevedono l’utilizzo di un metodo all’equilibrio, vale a dire ASTM D3278. Questo metodo, riferimento principale dell’Ente Ambientale EPA nel citato metodo 1020B, prevede l’uso del Setaflash.
Limitazioni legate ai risultati ottenuti
I metodi non all’equilibrio sono considerati meno sicuri di quelli all’equilibrio, tanto è vero che la regolamentazione europea obbliga a verificare per mezzo di un metodo all’equilibrio i seguenti risultati ottenuti con un metodo non all’equilibrio:
- T = ( 0 ± 2) °C;
- T = (21 ± 2) °C;
- T = (55 ± 2) °C.
Queste temperature, si ricorda, sono critiche per distinguere l’infiammabilità (55 °C), la facile infiammabilità (21 °C) e l’infiammabilità estrema (0 °C, non interessa direttamente la classificazione dei rifiuti): viste le implicazioni pratiche nell’etichettatura, e a seguire nelle modalità di stoccaggio e di trasporto che seguono alla definizione corretta del punto di infiammabilità, direi che è preferibile eseguire il test direttamente con un metodo all’equilibrio, in modo da risparmiare tempo e denaro.
Lo stato dell’arte in Italia
Per capire quanto un metodo sia stato somatizzato dai laboratori sparsi nello Stivale, vale a dire quanto sia stato capito e accettato dagli addetti ai lavori e di conseguenza quanto capillarmente sia utilizzato, vale la pena di navigare nel database dei laboratori accreditati.
Accredia, l’ente italiano di accreditamento, mette a disposizione un elenco aggiornato dei laboratori accreditati ai sensi della norma UNI CEI EN ISO/IEC 17025 (che definisce i requisiti di qualità per i laboratori di prova e di taratura). Se si esegue una ricerca con la parola “infiammabilità” per la matrice “rifiuti”, si ottiene un elenco che, alla data del presente articolo, raccoglie cinque laboratori. Questo non significa che solo cinque laboratori effettuano la ricerca del punto di infiammabilità sui rifiuti, ma solo che in cinque hanno ottenuto l’accreditamento per questo parametro.
L’accreditamento comporta una serie di verifiche che un laboratorio non accreditato normalmente non esegue, in quanto particolarmente onerose per tempo e difficoltà applicative. Un laboratorio accreditato è stato verificato a fondo dall’ente di accreditamento, e pertanto se ne può presumere l’elevata competenza.
Ora, se io guardo le prove in accreditamento dei cinque laboratori di cui ho detto, vedo che:
- due usano il sistema a vaso aperto (non valido per i rifiuti, in base alla normativa);
- uno classifica solo i rifiuti solidi urbani, con un metodo (ASTM D6450) non ammesso dalla regolamentazione europea, e che è stato predisposto per i prodotti petroliferi;
- un laboratorio utilizza un metodo interno, ma non ne sono riportati i limiti di applicabilità;
- in quattro fanno uso di un metodo a vaso chiuso, e di questi solo uno indica un metodo ufficialmente ammissibile (ASTM D93), quello che utilizza Pensky-Martens e pertanto non va bene sotto i 50 °C;
- nessun laboratorio fa uso di un metodo all’equilibrio.
In pratica, il quadro che emerge da questa semplice analisi è abbastanza deludente. Se io, oggi, volessi caratterizzare un rifiuto liquido a base d’acqua, contenente solventi, per valutarne l’infiammabilità, e ottenere un rapporto di prova con il marchio dell’ente di accreditamento, dovrei cambiare nazione!